Appunti intorno all’opera poetica di Lucio Zinna

I presenti appunti, lacunosi, provvisori e frammentari, sono stati redattileggendo e consultando:

In volume

ITALIA INSULARE, I POETI, a cura di Bonifacio Vincenzi, Macabor 2021

Lucio Zinna, ABBANDONARE TROIA, Forum/Quinta Generazione 1986

Lucio Zinna, LA CASARCA, La Centona 1992

Salvatore Spagnolo, L’ISOLA E IL VERSO Editrice Milo 1981

Lucio Zinna, POETI DELLA SICILIA, Forum /Quinta Generazione 1981

Giuseppe Zagarrio, FEBBRE, FURORE E FIELE, Mursia 1983

Aldo Gerbino, SICILIA, POESIA DEI MILLE ANNI, Sciascia 2001

Anna Barbera, Carmelo Pirrera, GLI EREDI DEL SOLE, Il Vertice 1987

In Rete

LETTERA in VERSI, Newsletter di poesia di BombaCarta, n. 53 – Marzo 2015

Numero dedicato a LUCIO ZINNA

Una recensione a LE ORE SALVATE (Lucio ZINNA dalla finitudine alla trascendenza, nel volume ”Le ore salvate” – Paese Italia Press )

Lucio Zinna e la saggia ironia del vivere (Lucio Zinna e la saggia ironia del vivere (culturelite.com) )

ALLA POESIA DO DEL VOSSIA – INTERVISTA A LUCIO ZINNA (ALLA POESIA DO DEL VOSSIA – INTERVISTA A LUCIO ZINNA. Tempo uno di tre | NiedernGasse )

LUCIO ZINNA (» Lucio ZINNA (italian-poetry.org) )

LUCIO ZINNA (Lucio Zinna – Carteggi Letterari – critica e dintorni ~ Rivista e Casa Editrice )

***

ITALIA INSULARE

I POETI, a cura di Bonifacio Vincenzi

Lucio Zinna: ritratto di un poeta, Macabor 2021

Questo volume dedicato a Lucio Zinna, fa parte di un progetto editoriale curato personalmente da Bonifacio Vincenzi con il supporto di una preziosa squadra di critici.

Il volume è così costituito: una vasta biobibliografia del poeta, una sezione di testimonianze critiche, una ricca antologia di testi. Segue VOCI DAL SILENZIO, una sezione di testi accompagnati da interventi critici di poeti scomparsi, da non dimenticare. Infine, un’antologia di poeti contemporanei.

Come si vede, dunque, si tratta di un progetto ambizioso e meritevole, assolutamente necessario per due motivi: la difficoltà, se non l’impossibilità di reperire i testi nella loro prima edizione; l’urgenza etica della testimonianza contro la forza dirompente della dimenticanza e della dispersione.

Commentano l’opera di Lucio Zinna: Elio Giunta, Carmen De Stasio, Raffaele Pellecchia, Francesco De Nicola, Liliana Porro Andriuoli, Rinaldo Caddeo, Diego Conticello, Tommaso Romano, Sergio Spadaro, Nicola Romano, Rodolfo Di Biasio.

Alcuni stralci degli interventi:

Elio Giunta mette in luce le fasi di maturazione di questa poesia. Nei primi libri di Zinna “prevale la memoria dell’infanzia, ma in cui è già evidente la dote, che egli manterrà poi peculiare, dell’osservare il fluire delle vicende del mondo rispetto alle quali la scelta è farsene spettatori”.

In un secondo momento lo stile di Zinna “pare raggiungere più perfetta consistenza, certo perché il senso del male e dell’incongruenza del vivere risulta essersi acutizzato, in quanto la maggiore età ha consentito l’arricchirsi delle esperienze (…) Si scopre con più evidenza che la poesia resta ragione e strumento unico di stare al mondo; – ed ancora, specie nella silloge Abbandonare Troia, l’acquisito senso di arrivo nella posizione di ben ponderata accettazione del procedere della vita così com’è”.

“Ho sempre guardato (valutato) con sospetto e con diffidenza i casi di opere letterarie in cui si percepisce una sostanziale incongruenza tra l’autore e l’uomo, ossia tra l’opera e chi la produce. (…) In realtà la poesia è un sofisticato e delicato organismo che vive e si rinnova, ma che non sopporta cesure violente e innesti contro natura. Di questa sua costitutiva indole Zinna è pienamente consapevole e ad essa è stato ed è totalmente fedele, così come fedele è ed è stato ai valori che hanno preservato e caratterizzato la sua ricca umanità: gli affetti familiari, la sua terra, l’amicizia, il rispetto degli umili e l’insofferenza verso l’ingiustizia. Senza di che non si dà umanità, e senza umanità non si dà poesia. Per cui, davvero, e di nuovo: “Le style est l’homme même.”

(Raffaele Pellecchia)

“Intanto nei suoi versi avevo trovato una percentuale davvero inconsueta d’ironia, qualità piuttosto rara tra i nostri poeti soliti a prendersi sempre sul serio; ma era emerso anche il senso di un lavoro in versi del tutto individuale, fuori da mode e da salotti (…) Da qui l’autenticità unica dei suoi versi di forte impronta autobiografica, ma di un’autobiografia che è lo specchio di una generazione che ha attraversato la guerra e la miseria della sua Sicilia.

(Francesco De Nicola)

Nel suo intervento, Liliana Porro Andriuoli, riporta lo stralcio di un’intervista fatta a Zinna da Giovanni Dino:

“Che significa essere poeta?”.

Così risponde Lucio Zinna:

“ Significa disporre di una particolare sensibilità, osservare il mondo con un terzo occhio e rappresentarlo come quest’occhio lo vede e quella sensibilità lo interpreta. Esclusi in quest’ottica il banale e il consueto”.

Diego Conticello considera Abbandonare Troia il “libro cardine dell’intera produzione poetica di Lucio Zinna, nato qualche decennio dopo l’acceso fervore degli avanguardismi – Lucio Zinna in quegli stessi anni flirtava con l’avanguardismo palermitano riconducibile al Gruppo 63, tuttavia mostrando quell’acuta intelligenza criticha che, per sua stessa ammissione, lo faceva stare “con un piede dentro e uno fuori ”. Il libro “rappresenta il raggiungimento delle vette espressive più autentiche della poesia dell’autore siciliano, per il suo amaro sarcasmo, per l’indignazione allo stesso tempo pacata e pregnante, per l’uso centellinato e corrosivo della citazione letteraria e del prestito linguistico, per la ‘malinconiosa’ meditazione sul metaforico incendio distruttivo appiccato da qualche tempo al reale, che comporta l’incenerimento di qualsiasi valore. (…) Davanti ad una ideale biforcazione Zinna sceglie la strada infangata, il percorso accidentato che lo costringe a raccontare le difficoltà del vivere, evita insomma di rifugiarsi nell’idillio, nel lirismo puro e trasognato, affronta ‘di petto’ il marciume dell’esistenza opponendovi la fiera, pervicace e tagliente sciabola dell’ironia”.

“Certo è che, fin dagli inizi, il modo di porsi di Zinna si caratterizza secondo una linea tipica della Sicilia occidentale, a forti valenze realistiche e sociali (anche se non sempre di aperta denuncia), in cui il posto dell’individuo nella storia non può che essere quello dello sradicato che lamenta – come nel caso presente, senza vittimismo – il montaliano ‘male di vivere’ da cui è afflitto. (…) A partire dalla seconda raccolta Zinna elabora le soluzioni stilistiche che più lo caratterizzano da allora in avanti, nel senso di una liberissima versificazione a lungo respiro di stampo novecentesco, nella quale la mancanza della punteggiatura (soprattutto della virgola a livello lineare) insieme con l’uso forte dell’enjambement per così dire a ghigliottina, a comporre un dettato ritmico spezzato e franto, con andamento prosastico”.

(Sergio Spadaro)

Il lavoro di Lucio Zinna è stato un lavoro sulla poesia, ma è stato anche il lavoro di un intellettuale infaticabile che ha operato a tutto campo. Basti pensare ad Arenaria, la bella rivista che per anni ha accomnpagnato sotto la sua direzione il farsi della letteratura contemporanea con l’occhio del Sud, ma aperta anche a quanto avveniva nel continente. (…) Un poeta quindi che si è evoluto fra tradizione e sperimentazione per giungere al cuore della sua ispirazione.

(Rodolfo Di Biasio, Motivazione del Premio Solstizio 2017 alla carriera)

***

I primi testi di Zinna si collocano a cavallo tra gli anni sessanta e settanta: Il filobus dei giorni (1964) risente del clima di quel neorealismo postbellico che troviamo in tanti poeti siciliani di quegli anni ma – Mario Farinella, per fare un nome – ma, certo, i riferimenti ante litteram a Jhaier e a Pavese non possono essere taciuti.

Non mi riferisco solo alle tematiche, ma anche a un certo modo di porre una parola che fa eco al parlare semplice, in presa diretta con la dura e immediata realtà delle cose, poetica che in altri autori è stata ripresa nel senso di citazione elaborata, di prassi di registrazione diretta, ad esempio Stefano Vilardo.

*

(…)

Mia madre nelle code

pane nero la zuppa di lumache

posti di blocco elmetti muri scritti

urlo di sirene e notti sane

nei rifugi zeppi di gente

che guardavo con occhi senza sonno.

(…)

(da Sparse mi ritorna sequenze, in Il filobus dei giorni, 1964 )

*

(…)

Quando mio padre partì nel Marocco

io dovevo nascere ancora.

Andava in cerca di lavoro

e invece patì la fame.

La guerra lo portò lontano.

Fu prigioniero: giocò

con la morte e vinse lui.

(…)

(da Mio padre, in Il filobus dei giorni, 1964)

*

Stesso modo di procedere, almeno apparentemente, leggiamo in Un rapido celiare (1974). Accanto a testi come All’improvviso, di immediata fruizione e concepiti nel’ambito di un polemos sociale assai acceso, leggiamo anche qualcosa che traghetta la poesia di Zinna verso una complessità maggiore:

*

All’improvviso

Lo scopriremo un giorno all’improvviso

e resteremo fermi a mezza strada

a farci bestemmiare

sul bianco di una striscia pedonale.

Passeremo col rosso ci urteranno

saremo pazzi ubriachi imbecilli

non vedremo nessuno.

S’azzannerà il cervello qualche volta

all’improvviso

scopriremo tutto

chiusi nella scatola

correndo come ladri

assassinando il padre di famiglia

che pavesianamente perdio c’entrava

come tutti noi.

E miracolo sarebbe se potessero

lapidarci davvero.

*

In Antica lettera, balza subito agli occhi uno slittamento rispetto all’oggetto del canto. Non più un vasto affresco in cui l’io annaspava nel dramma collettivo, ma ora un io che dialoga con un tunella forma privata della lettera. Culturalmente siamo già nel vorticoso calderone della protesta, del sommovimento sociale e persino semantico.

*

Antica lettera

II mio asteroide brilla in solstizi d’inverno non puoi
vederlo nunc et semper cara astrale distanza fra noi.
Io non so più quand’è che brilla il tuo pianeta bevo
desolazioni e cerco / di sintonizzarmi come posso /
il mio silenzio è chiuso / in un bicchiere. Abito in via
Veneto tu in via Sardegna — quattro passi si direbbe
— ogni passo un milione soltanto di anni luce. Sono
la tua distanza e questo (gelido) vento di dicembre /
se ti rapisce angosce delusioni / è canto di fogliame di
cicale / triste la notte che / ritorna l’eco.
Mancano valvole antenne manca una rampa di lancio
al mio Cape Kennedy esperimento questa
memorizzazione tremenda.
Sei la mia distanza. È il problema se il pensiero
la brucia / ridivento eretico in rogo. Ti saluto.

*

Il pensiero sottotraccia riguarda, quindi, la modernità, le sue rampe di lancio, lo sforzo di un poetare che già include nel suo organismo un parlare a voce alta – da strada, con se stesso – e un lirismo da scrivere in corsivo, quasi come citazione di un pensiero colto col quale infine fare i conti. Come non avvertire, infatti, il contrasto tra la rampa di lancio – oggetto non solo metaforico, ma totem concretissimo e minaccioso della nuova era – e il clima psicologico di un sentirsi a parte, di un mal di vivere impegnato nella ricerca di una propria, seppur fittizia, centralità?

Sàgana è un libro del 1976. Dai testi che ho potuto leggere in questa antologia, giunge al lettore una evidente rottura tra l’io e il mondo, la propria terra, la storia millenaria di un’isola sempre protesa tra l’antichissimo ieri e un insidioso domani. Il poeta anela a chiamarsi nessuno, strappato tra l’ “urgenza di restare e di partire”. Lo scontro culturale e persino psicologico è tra due civiltà, quella europea e quella araba. Sentiamo il desiderio di una verità autentica del mondo, la dichiarazione di una sconfitta: “forse basterebbero gli occhi di cerbiatto / del bimbo più sincero che conosca (per ora / inventa un suo canto e si accompagna / a una improvvisata sua chitarra), oggi che rileviamo – amore – come il falso / vinca più spesso e quanto perda il vero”, (da Eliade).

Leggiamo di un’amara ironia – situazione assai ricorrente, come rilevano in molti, nell’opera di Zinna.

*

(…)

C’è un’accezione seconda del verbo

incazzarsi’ che vuole dire offendersi e

magari sboccare nell’ira. La prima – più nota –

accezione concerne l’erezione del fallo

e giustifica il modus dicendi di scendere

dal fallo e proseguire a piedi

(…)

(da Frammenti di una lettera a Monique)

*

Leggiamo l’approdo verso una visione del male come modus operandi di un dio misterioso, il male come natura del mondo, contro il quale l’uomo tenta di opporre la forza impetuosa dell’amore:

*

Disorganico improvviso ci persegue

da ogni parte il male. Tendiamo

a soffermarci a raggi di sole nuvole

colline colori forme appena si riesce

a discacciarlo. Impetuosa ci assale

allora una voglia di amare (se amo sono)

di accarezzare i figli benedicendo e

noi e loro di essere nati

(…)

E c’è chi parte senza preavviso

colpito sull’istante – a pranzo

nel giaciglio in ufficio nella strada

(si potesse fotografare la pupilla

ingrandire il quadro cento volte

si potesse studiare lo stupore incredulo

di finire così come dei ragni).

Di tutti gli attimi di che si compone

un’esistenza, quando di essi l’ultimo

si affaccia, subito ne rappresenta

la fine un regista invisibile coi soli

strumenti scenici che trova. Improvvisando.

Forse dovremo tenere altro linguaggio

con le stesse parole. L’operaio morì DUNQUE

cadde dall’impalcatura al nono piano. Tu

sull’autostrada pensavi sto-arrivando-dai-miei

(eri retorico e solo nellla tiepida sera

d’agosto). In quell’istante moristi e

pronta richiese la regìa che saltasse

la ruota. O non più tenere il battistrada.

(da Disorganico improvviso)

*

La chiusa del testo, bellissima e imprevedibile, mi sembra rappresentare una duplice contesa nella poesia di Zinna; e cioè da una parte l’approdo verso un distacco di tipo esistenziale, una maggiore concentrazione di senso, dall’altra il legame strettissimo con le sorti della razza entro cui si muovono le nostre esistenze, tra il chiudere una finestra per non guardare il mondo, e spalancarla per desiderio di partecipare alla festa.

Abbandonare Troia (1986), è unanimamente considerato, come si è detto, il libro più importante di Lucio Zinna.

Viaggio di ritorno verso il Sud, tutto giocato sul contrasto tra storia e natura, tra l’inerzia glaciale della prima e l’inutile volgarità della seconda, (Giuseppe Zagarrio).

…E’ la storia di ognuno di noi, ignaro ulisse della sua avventura, sempre diviso dall’incertezza di restare e di partire (…) Lo spazio interiore è anche nostro, è della nostra terra, simbolo ormai, forse soltanto simbolo, di quella pace irrequieta e prepotente che viviamo alle soglie del terzo millennio, (Melo Freni).

Mi pare di poter rilevare la presenza di un pluralismo come dato di fondo che investe tanto la sostanza lessicale quanto la strutturazione sintattica e contestualmente l’effetto tonale del discorso poetico che, tuttavia, conserva, come suo segno distintivo, un abito di preziosa e ironica curialità. (…) Mi pare sia assente, nella organizzazione della frase poetica di Zinna, qualsivoglia intento polemico vuoi verso il registro sublime vuoi verso quello umile; né, tantomeno, c’è la preclusione verso alcun livello stilistico e lessicale; al contrario, con l’abolizione di ogni opzione pregiudiziale, ci si garantisce una estrema libertà di scelta che finisce per essere l’elemento caratterizzante la sua fisionomia stilistica. Voglio con ciò dire che la mobilità della gamma espressiva, la varietà dell’assetto lessicale, la compresenza di stilemi ora mutuati dal parlato ora derivati da una cultissima fonte risultano così bene amalgamati, secondo un consapevole e misurato assemblage, da costituire un corpo organico e tipizzato (…)

(Raffale Pellecchia nell’introduzione a Abbandonare Troia)

Mi sono lungamente soffermato su questo passaggio del prefattore perché, leggendo, si capisce assai bene come la poesia di quegli anni lavorasse su una introiezione famelica di tutti i linguaggi, e soprattutto sullo smantellamento dei codici retorici e dei generi, in primo luogo la lirica.

Questo lavorio di sminuzzamento e di conflagrazione dei materiali è ben presente nel libro di Zinna, ma con un procedere tutto suo: e cioè, ancora una volta, l’arma dell’ironia beffarda e malinconica. Zinna sembra non perdere di vista il contenzioso espresso dal titolo; una tensione/tenzone con quel luogo di poesia prima che evocava in Sàgana, qui, ora, espressamente, la Palermo dei contrasti, del turgore e della sofferenza psichica. Così la lingua tagliente di molti testi, è arma che, sminuzzando e tagliando, vorrebbe giungere al vero e all’essenziale, come quel bimbo che in Elide cantava il suo canto accompagnandosi a una improvvisata chitarra.

Esiste, dunque, continuità tematica fra Sàgana e Abbandonare Troia. Il testo chiarissimo, che arriva al lettore come una schioppettata, è proprio il poemetto che conclude il libro e che ne riassume il substrato doloroso, soffocato dalla voce alta del modus letteraio: Sessantacinque versi per il treno della Maiella.

Certo, prima di giungere all’abbassamento di tutti i fondali della rappresentazione teatrale, i passaggi sono molti. Fra tutti indicherei la traccia di una riflessione metatestuale – assai in voga, del resto, in quegli anni – e cioè su che cosa voglia dire fare scrittura, da dove scientificamente scaturisca la voce di Orfeo. La citazione “culta” riguarda proprio uno dei vertici di quegli anni, lo stemma linguistico derivato da Ducrot – Todorov, secondo una visione strutturalistica della costruzione sintattica e semantica del testo. Non mi sembra in funzione di poesia visiva, come sottolinea Diego Conticello; piuttosto indicazione di un approfondimento del fare poesia lontano dalla tradizionale prassi delle poetiche, delle derivazioni e dei debiti.

*

Ci sarebbe così per Tesnière una traslazione

che produce (un’A la simboleggia) la funzione

aggettivale nella proposizione ‘appartiene al padre’.

L’analogia profonda tra ‘paterna’ e ‘che appartiene

al padre’ e al tempo stesso la (superficiale) loro

differenza sarebbero rappresentati per mezzo

di ‘stemmi’

(…)

*

Lo sconvolgimento della lirica, insomma, è stato perseguito con tutti i mezzi possibili, ed è ancora in atto. In quegli anni, la commistione dei linguaggi ha sicuramente prodotto dei mostri ma, come si dice, “perseguire è diabolico”; nel senso che, una reiterazione dei modi sperimentali oggi si è arenata in forme che i presenti non comprendono più e producono solo noia – stesso discorso si potrebbe fare a proposito della musica dodecafonica – .

Lucio Zinna dimostra come le questioni legate alla riflessione, a una maggiore consapevolezza del fare poetico, possono essere rimovibili e precarie esse stesse, laddove la poesia, intesa come capacità di guardare con un terzo occhio (espressione dello stesso poeta), avverta, nei lavori in corso, l’urgenza di ricompattare la sua essenza, il suo statuto millenario. Il reale preme sempre potente sulle parole:

*

Sessantacinque versi per il treno della Maiella

S’annega lo sguardo tra roccia alberi e cielo

lento un senso angoscioso di quiete filtra

di qua dal finestrino. Semideserto sfila a tratti

un paese aggrappato a una collina diruto

inerme stanco di difficoltose

sopravvivenze (quanti avranno appeso

un frammento d’anima ai costoni bianchi

per frastornanti lidi per frustrati sogni) lassù

non giunge eco di questo sferragliare di rotaie

è un convoglio fragile di latta un gioco appena

per invecchiati infanti questo treno della Maiella

questo Espresso Pescara-Napoli via Roccaraso

di laborioso reperimento nel libro degli orari.

Filtra lento un senso angoscioso di quiete.

Piantare tutto. Allogarsi da queste parti

con la sacrafamiglia nel più remoto villaggio

mettersi in pensione anzitempo vivere del minimo

prima che entrino falsi cavalli abbandonare Troia

con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion

e kermesses mondane e sindacati autonomi e confederali

e impossibili scuole (elefanti di mala educazione

di presunzione e droga) recidere i fili

coi tossici milieux culturali

di questo molle-agonizzante impero.

Comprimere la fretta rallentare i gesti

reinventarsi le albe e i tramonti.

Tu sapevi madre che la vita non mi avrebbe serbato

che sorprese e inconfessati strazi ed era questa

la tua pena d’andartene e ignorare le strade

percorse da un figlio «fattosi presto adulto eppure

rimasto indifeso» come tu eri stata – quando

il cuore avrebbe detto basta una mattina

d’estate all’improvviso

tra un ferro da stiro e le stoviglie.

Non poterti più dire una parola

e si bruciavano i tuoi ultimi istanti

di lucida coscienza della fine mentre tentavamo –

attaccati al telefono – di chiamarti

soccorso («scioperano le ambulanze della Croce Rossa

può rivolgersi ai Vigili del Fuoco» e questi rimandavano

all’autoparco della Croce Rossa) e venne infine un urlo

di sirena per un viaggio – poi – senza ritorno.

Anche il commiato ci fu precluso. Non ti dissi

(né avresti creduto) che fin dall’età di ragione

avevo imparato a corazzarmi e mantenermi

un nucleo intatto (un osso di purezza) impenetrabile

ai tratti del volto ai segni della mano.

Imbrunisce. Passano larici e abeti passa una capra

solitaria corrono due bimbi su un prato e spariscono

guarda imbronciato un casellante. Hai gli occhi lucidi

come di pianto. Siamo stati in silenzio. Decisa

ancora è rimasta la nostra (antica) consonanza.

Che faranno a quest’ora i figli

nella casa lontana – questi figli che ci stiamo

crescendo a poco a poco in maniera sbagliata

(pronti incapaci di menzogna aperti agli altri

in un covo di lupi). Come l’Abruzzo ora

anche il Molise è trascorso – magico e sconosciuto –

si corre verso Napoli centrale verso le colerose

cozze verso Re Ferdinando verso la Flotta Lauro

e Masaniello. Di qui – per l’affranta Calabria

e per lo Stretto – verso Palermo tradita moribonda

tra rifiuti e mostruosi palazzi dagli animati (dicono)

pilastri si corre verso un freddo glaciale coltivato

per secoli da un sole irridente permaloso.

*

Si potrebbe dire, ma si avverte benissimo senza la mediazione di un critico, come la forza del poemetto conclusivo consista in uno scatto violento che porta la parola in avanti, la libera da ogni metacognizione letteraria e filosofica, la mette prepotentemente in contatto con la dignità e l’indignazione, il dolore e la rabbia, persino una rassegnazione che si stempera nella contemplazione di una natura semplice, immediata.

Scrive Elio Giunta: “Tra l’ 84 e i primi anni 90, va collocata una terza fase, con i titoli Bonsai e La casarca. Può sembrare che non vi si aggiunga di molto in tematica e stile rispetto ai testi della seconda fase. E invece si tratta senz’altro di una fase nuova e di arricchimento, logica e quasi necessaria. (…) Ora è aumentata in lui la voglia di solitudine, il disincanto si è fatto totale, persino l’insularità è vissuta addirittura come un privilegio. E quella che è stata accettazione della propria condizione e difesa contro l’altro – da intendere il mondo e la sua rumorosa oggettività – si è fatta così sicura e serena, da consentirgli ora il lucido sarcasmo: che però, si badi, non sarà per malevola idiosincrasia, ma in funzione di un provocatorio appello al prossimo, secondo una vera e propria lezione: cioè che l’altro si consideri avverso se e in quanto non sa essere prossimo”.

Così, chiaramente è detto in un testo:

*

Il prossimo tuo

Il mio spesso mi sgraffia si fa disamare

mi affonda i dentini – nosferatu – io mi ferisco

ricambio rammento mi scordo riprovo giro al largo.

Chiedo una foglia e m’é negata o concessa quasi

fosse – che so – d’oro platino. Quando a me vengono

per un albero grande mi compenetro rischio poi li vedo

tornarsene lievi nemmeno portassero un bonsai.

Ho disimparato a misurare il prossimo a centimetri.

Non tutti che mi stanno accanto mi sono prossimi.

Prossimità è corrispondenza interiore sintonia.

Può essere distanza – lontananza mai.

*

Un testo assai poco allusivo, se non fosse per l’immagine del bonsai che indica una disparità nella misura dei valori e dei disvalori, delle richieste e delle conferme; un vademecum prezioso per ogni poeta che, oltre il peso della sua parola, si ritrova prima o poi a gestire tutto il baraccone di relazioni che si porta dietro e che prima o poi è cosa saggia imparare a smantellare.

Eppure il poeta rimane aperto e disponibile, sensibile alla sofferenza, coerente con quanto ha affermato Raffaele Pellecchia: Le style est l’homme même.

*

Del tendere la mano

Di che vai discorrendo perduto fratello

nelle carte nelle nebbie nell’innecessario

morso che azzanna fegato e cervello di quale

– atteggiarsi – che l‘oggi non c’imponga a meri

fini di sopravvivenza di quali cattedre

che non siano di miseria (persino economica)

qui non ci sono – reali o ipotetiche – grandezze

peraltro impercorribili se non in noi – per noi –

nel nucleo agostiniano dove non può colpirci

nessuna bomba/damocle. Il cuore ci fa grandi

l’essenza stessa del verso non il clangore

di tube (oh miglio per uccelli di passa

oh becchime per polli). Riconquisto le mie

distanze come m’accadde per Lilli ma ora

siamo oltre la logica generosa di giovanili

amori. Ora esse hanno vertigini (depressioni

e lievitazioni). Ergo riconduciamoci fratello

a una severa ermeneutica. Vieni. Tendere

la mano rimane un gesto possibile un reciproco

atto di giustizia.

*

Ancora un manifesto – sempre l’età adulta c’impone manifesti, consapevoli atti di distanza, almeno, non di chiusura – . La distanza, qui, è la ricomposizione di un gesto di dignità umana e letteraria se il cuore e l’essenza stessa del verso ci fa grandi. Altro non conta.

Questo clima di riappropriazione del senso di un’antica origine, si porta con sé la memoria dei territori, collettiva e personale, in una specie di sintesi del poetico, che non svaria, nemmeno nelle raccolta successive, ma rimane ben salda sulle conquiste di vita e di stile finora raggiunte.

Ne La casarca, raccolta del 1992, ecco ancora il tema della terra, delle partenze e dei ritorni, l’onnipresente e sorniona ironia, unitamente alla forma della tiritera e della cantilena semplice, quasi a evocare il gioco dei bambini che si fa pensiero elementare:

*

Uno d’apparizione

pochi d’arcobaleno

giorni di biondo miele

e di nero veleno.

Giorni di primo amore

(che si credette vero)

giorni di vero amore

(bruciati come un cero).

(da Tiritera dei giorni)

*

L’elemento gnomico, di pensiero, o, al limite, pedagogico, si ritrova in molti testi di una raccolta del 2002 La porcellana più fine, in cui la materia si fa aperta metafora di una possibilità nuova dell’esistenza, di un’etica aggiornata:

*

La porcellana più fine

è la speranza (la ‘fede’ avresti detto)

che qualcosa si muova oltre l’alpacca

del dubbio che qualcuno ci attenda

oltre quel filo.

(da La porcellana più fine)

*

Ed è dichiarazione da associare all’ineluttabilità del trascorrere del tempo, al tentativo dell’uomo di frenare il precipitare dei granelli di sabbia nella clessidra:

*

Ciascun giorno ha la sua circoscritta

infinità che – metodica – la clessidra

tenta di catturare imbrigliando

lo scorrere dei granuli.

(…)

Il reale – circostante si dice –

ha pesantezze e levità misurabili e tutto

pare spingersi oltre l’istante a rendere

inossidabile il presente. Ma tutto sparisce

con l’attimo che muore mentre più è vivo

e si nega affermandosi.

(da Illusoprietà del presente)

*

La distanza, dunque, è intesa come sguardo che osserva col cannocchiale della consapevolezza senile, la sparizione delle forme – sensibili e mentali – mentre la natura, che non chiede ma semplicemente è, continua a splendere nella successione perpetua dei suoi colori e delle sue consistenze.

*

Mentre maggio sparge i suoi tepori

e nell’aria si coglie un’imminenza

di tigli (il seppia di memoriali

reliquie che in olfatto si converte)

verzica questa vita nei suoi moti

di stadera alla ricerca del punto

di stabilità nell’illusorietà

del momento.

(da Alba con filodiffusione)

*

Il pensiero, insomma, non rinuncia a cercare il punto fermo di tutto il senso dell’esistere, lo bracca con le parole, con la puntualità dello sguardo vibrante ma altro non può fare che soffermarsi sull’unico momento in cui le cose sembrano immobilizzarsi nell’illusione di una definitiva stasi:

*

E’ il presente

che effonde i suoi flussi polimorfi

in una concretezza di gesti e oggettività

e parole quasi fosse immutabile

come se perenne fosse tutto

tranne il fluire – sola perennità –

a fronte della nostra incombenza

di viventi con sospesso –

o speranza – d’immortalità

per declassati dei.

(da Alba con filodiffusione)

*

A proposito di Poesie a mezz’aria, raccolta del 2009, Sergio Spadaro evoca “una condizione sospesa tra basso e alto e anche all’interno del soggetto”; ma anche a cose “che possono trovarsi tra cielo e terra”. Potrebbe sembrare, continua, “la citazione di una sfera aerea (…) con impalpabili e misteriosi angeli”, ma si tratta, a suo vedere, di “transiti esistenziali”, di “legami affettivi e memoriali (…) che lasciano i loro depositi all’interno della psiche”.

E in effetti il corpo duale di un Essere che si avvia verso un viale fatto di luce, sembra liquefarsi, insieme a tutte le cose che lo circonda, contro i riflessi di una “pioggia / fitta / persistente / appena cessata”.

Sono immagini tratte da Lustrura, uno dei testi probabilmente più belli di tutta la produzione di Zinna; perché in questo caso la parola mostra la sua sostanza di cartavelina prossima al disfacimento, eppure resiste ancora, evocata dal desiderio di preservare qualche minimo senso per i giorni degli altri:

*

LUSTRURA

La pioggia

fitta

persistente

appena cessata

ci lascia questa chiarìa

che rende traslucidi

corpi e cose alberi e case

nel viale inzuppato di resina

e l’asfalto riflette percettibili sfrigolii

di ruote veloci

intanto che come ombre

noi due procediamo

sul marciapiedi che affianca la villa

mano nella mano silenti verso e oltre

l’arco

di nessun trionfo

mentre nella piazza che pare spoglia

il caffè dal grande chiosco

ottagonali a vetri

si offre per uno per due

per tre quarti d’ora

di addormire il destino

intepidire l’intrepidezza dell’ignoto

la soffusa irrealtà del giorno

paghi di essere comunque qui

comunque insieme

fatti certi dalla stessa incertezza

nella lustrura post-pluviale

di un imbronciato mattino qualsiasi.

*

Ma la parola è anche desiderosa di evadere, di rinascere portandosi avanti, lontano,” come gru / come cicogne” – (da Migrazioni).

I corpi, insomma, non hanno più bisogno di comunicare con le parole. Basta solamente la loro presenza perché un senso coltivato per tutta la vita possa essere ribadito con la sola presenza dell’immagine dell’altro. Come nell’ultimo film di Kurosawa, “Rapsodia d’agosto”, in cui due donne anziane, facendosi visita, si mettono una di fronte all’altra, immerse in un gran silenzio, davanti a una tazza di te, senza dire niente. Il tutto che è stato la loro vita non ha bisogno di essere spiegato, metaforizzato. E’ lì, semplicemente lì:

*

Non starmi lontano – poco o molto –

ogni tua assenza mi lascia a mezz’aria.

Ti sorprendi quando te lo confido

e mi meraviglio se mi riveli

che lo stesso accade anche a te.

Ormai nostri colloqui non sempre

chiedono parole sperimentiamo

da tempo loquaci antenne di silenzio.

Come quando a voce alta rispondo

a un tuo quesito mentale o come

quando alzi la cornetta del telefono

un attimo prima del mio squillo

e il mio saluto anticipi a narrarmi

di urgenze o novità o altro.

(Come quando)

*

Poesie di una senilità amorosa, insomma, in cui le esperienze non gridano più ma si depositano in calmi adagi musicali, e forse il lavoro ora consiste nel far emergere più chiaramente la melodia, il monologo epurato dal teatro del mondo, senza dover rendere conto delle proprie azioni alla complessa armonia che gli uomini hanno creato ma a una Natura silenziosa, eppure avvolgente.

Si leggano questi passaggi tratti dalle ultime raccolte:

*

Planano i lenti gabbiani stamattina

non s’avverte uno strido

s’inseguono onde di robusta spuma

che alla battigia pettinano il mare.

(da Lungomare d’Aspra, in Stramenia, 2010)

*

Ormai i molti sono gli scomparsi

dal mio globo e non so che velo

li ricopra quale vento sottile

sussurri tra ora e allora tra qui e dove –

dove – come grido sommesso.

(da I molti e il loro altrove, in Stramenia, 2010)

*

Non la partenza conta

né la fermezza o l’instabilità

del punto da cui ti muovi.

Conta quel che lasci

e cosa ti porti

(…)

Non l’arrivo conta

né la solidità o fluidezza

del punto verso cui ti muovi.

Conta quel che ti attende

se qualcuno ti attende

che cosa ti attendi

(…)

(da Partenze e arrivi, inLe ore salvate, 2020)

*

Ora i temi, dunque, riguardano l’evocazione e il tentativo mentale di raggiungere un punto, il modo di illuminare la strada; che è labirinto, possibilità infinite, realtà quantistica che c’investe senza principio né fine, senza traguardo e partenza. Sembra splendere, in questo labirinto, solo l’immagine in bianco e nero di un ricordo, la forza dell’esperienza che è stata, l’utopia di un mondo forse più buono e più giusto.

*

Palermo anni Sessanta – nel clima

lucido ludico casuale del Gruppo Beta

e dei suoi poeti di strada

(da Strade, inLe ore salvate, 2020)

Un commento

  1. Destino vuole che avessi scritto almeno 30 righe andate perdute per aver premuto male un tasto…Avevo scritto (liofilizzo, ormai) del re-istituire di queste tue pagine come di un valore aggiunto, rispetto a certe scritture tutte tese…in tensione critica e non dialogante con il lettore di cui il web è prolifico.Avevo scritto, meglio di adesso, di un tuo dispiegare universi inesplorati, a me talvolta simili ad un cosmo impraticabile per vastità ma per questo incantatore seducente. C’è poesia in una scrittura che vuol mettere in relazione. Parola ha etimo in parabola, e parabolè in greco, che sta per mettersi vicino a. Ci ritrovo un’etica, l’etica del “fare poesia” come gesto, come un comportarsi nel mondo senza volerlo giudicare. Chè giudicare vuol mettere alla prova il lettore, tenendolo sotto scacco perpetuo, chiedendogli di saper capire (citazioni, allusioni, rimandi, teorizzazioni…). Questo lavoro su Zinna è un paradigma: per sostenere la tesi che si sta nella poesia come si sta nel mondo. Il come fa la differenza. Grazie.

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